Mele, Genova – È il 23 maggio scorso, siamo in una scuola media, non una qualunque, la prima in Italia che dal settembre 2011 ha munito i propri studenti di tablet per imparare meglio, per seguire le lezioni in modo innovativo. Ma evidentemente è servito a poco.
Siamo fuori nel cortile, ci sono decine di ragazzi a testa in giù, persi nelle relazioni virtuali sui social dei loro smartphone, simbolo di questa generazione che sta in contatto con le persone lontane e non considera quelle vicine. Poi c’è un gruppetto di ragazzi che ha in mano quei tablet che tanto sono costati alla scuola pur di migliorare le loro conoscenze. Ma non lo usano per imparare, lo usano per riprendere una scena, ignobile, volgare e disgustosa.
Due tredicenni stanno picchiando a calci e pugni un ragazzo mentalmente disabile. È a terra, si contorce dal dolore e i ragazzini attorno ridono. Altri due ragazzi filmano il tutto. Solo l’intervento tempestivo di una docente interromperà la violenza ed eviterà la messa in onda sul web dello spettacolo che per mano di altrettante bestie avrebbe fruttato una miriade di ‘like’ e di visualizzazioni. Un successone. Il ragazzo malmenato è un diciottenne non più iscritto a quell’istituto, che ogni pomeriggio aspetta con ansia di interagire con quegli scolari che forse gli attutiscono la solitudine e il disagio che la sua malattia lo costringe a vivere.
La notizia viene soppressa, chi ha vissuto quel dramma pensa bene di non alimentare polemiche, di chiudersi nel dolore. I genitori di quel ragazzo non presentano mai neppure un esposto ai carabinieri. Lo fa il Preside della scuola, la denuncia arriva al Tribunale dei minori. Non vengono sospesi, tutt’altro, la massima figura istituzionale di quell’istituto decide che deve dare non una punizione ma una rieducazione a quei quattro teppisti.
Un percorso riabilitativo li obbliga a sedute con psicologi e sociologi, li “condanna” a girare con quegli stessi tablet un video sul bullismo da divulgare in tutte le scuole. Il Preside di questo istituto scolastico di un piccolo paesino della provincia di Genova, di educazione se ne intende. Al contrario del padre di uno dei quattro cafoncelli, bulletti e porta bandiera di degrado mentale che, in tutta risposta, ieri ha presentato una sorta di contro querela alla scuola, perché, a parer suo, la punizione è stata spropositata all’evento. Il dramma, più di uno in questa storia, è che questo signore lavora anch’egli in una scuola, poco distante da dove è avvenuto il fattaccio. Dice che l’accaduto, seppur grave, andava risolto con una tirata d’orecchie. Sarebbe stata una bravata, il Preside avrebbe dovuto dirlo ai genitori, non ai carabinieri.
La liquida così una spedizione violenta e punitiva, una bravata. Così una bella tirata d’orecchie, se mai gliel’avesse fatta, e via domani con un’altra scazzottata da filmare. E poi, è preoccupato di quello che dice e pensa la gente del paese, troppo piccolo per non essere additati. Eh, già, è questa la preoccupazione di un padre il cui figlio scarica su un ragazzo già abbastanza provato tutta la propria rabbia, l’insoddisfazione, un odio inspiegabile che si fa fatica pure a credere che un cervello di un bambino di tredici anni possa già contenerli, tutti insieme. E da questa storia, solo una delle tante, emerge inquietante la triste verità, che a volte, prima dei figli, andrebbero rieducati i genitori.
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