Qual è il suono della guerra? Intervista all’inviato de La Stampa Domenico Quirico

Fonte foto: LA STAMPA

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Qual è il suono della guerra? Intervista all'inviato de La Stampa Domenico Quirico

Qual è il suono della guerra? Che voce hanno i vinti? Se c’è una persona in Italia che meglio conosce la risposta a questa domanda e che ha prestato loro la sua voce è il capo servizi esteri della Stampa, Domenico Quirico. Prima inviato a Parigi, poi inviato di guerra in Africa dove ha documentato i maggiori avvenimenti degli ultimi decenni: dalle primavere arabe alle guerre civili. È stato “su Marte”, come ha descritto lui stesso i giorni di prigionia in mano all’ISIS con altri giornalisti italiani. Poi ancora il viaggio su un barcone insieme ai profughi. Lui ha portato in Italia l’eco delle bombe e le scie di sangue con il silenzio della carta e le gocce di inchiostro. Non è la voce tonante che ci si aspetta da chi è uscito più volte dall’inferno. È una voce esile che sciorina incessante immagini e lucide analisi. Una voce che si deposita e si sedimenta. Dunque è così che si esce dall’inferno, con la Ragione.  E proprio come Dante con Virgilio chiedo com’è il nostro mondo visto dal “di sotto”, da quei luoghi che lui conosce bene.

 

Degli avvenimenti che lei conosce così intimamente spesso si ha una conoscenza o confusa o semplicistica: di qua i “buoni” di là “i cattivi”. Eppure sulle conseguenze di quegli avvenimenti (immigrazione o terrorismo) si sono costruite le più importanti scelte politiche degli ultimi anni. Come è possibile una tale contraddizione? È questo uno dei maggiori problemi?

«Certamente la nostra politica è molto “provinciale”. Non abbiamo avuto una vera politica estera dal ’45 ad oggi; il mondo era diviso in due e ci siamo adattati, salvo qualche caso, ai dettami dell’America. Basti pensare che in tutta la fascia sub-sahariana fino a poco tempo fa si faceva affidamento su un’unica ambasciata in Costa d’Avorio, questo per far capire l’interesse. Poi si reagisce in maniera più o meno avventata quando ci arriva qualche problema. A volte dico provocatoriamente di porre una domanda ai politici o alle persone: chiedere se sanno le capitali di alcuni di quei paesi, probabilmente nessuno saprebbe rispondere. Il nostro primo problema è la geografia, poi arriva il resto perché sono società molto complesse al loro interno e in quelle complessità c’è la causa dei conflitti. L’imbonimento dei crani è reso possibile proprio da questa scarsa conoscenza».

E da questa scarsa conoscenza deriva anche la scarsa sensibilità? A nulla serve parlare delle condizioni nelle carceri libiche o dei bambini di Lesbo. Le iniziative e i racconti suscitano l’effetto opposto. Vengono in mente le magliette rosse di questa estate che hanno diviso anche la comunità della riviera.

«Si è sviluppata una certa distanza, forse anche per protezione, ma ne è nato un mondo che inveisce appena si sente in qualche modo minacciato il paradiso terrestre che si è creato, appena si intacca la presunta normalità. Molte volte capita, nel raccontare queste situazioni, essere accusati di essersi inventati tutto o che si è alleati del “nemico”; le frasi sono “quella è tua amica o tua sorella, è un’attrice” e così via. Questo però vuol dire che i meccanismi che nel novecento abbiamo usato per creare una coscienza collettiva, una coesione non funzionano più».

A proposito di questa distanza e questa coscienza collettiva come non pensare ai contrasti tra migranti e calabresi (i casi sono moltissimi e diversi da San Ferdinando a Riace). Sono due periferie che si toccano, dovrebbero stare dalla stessa parte della barricata eppure a volte sembra che i migranti combattano per diritti che i calabresi hanno dimenticato. Viene posta sempre la questione: perché un calabrese, così povero e pieno di problemi, dovrebbe interessarsi di quello che avviene nel Mediterraneo?

«La questione è proprio nella parola Diritti. I diritti devono potersi applicare a 360° sempre e su qualsiasi categoria altrimenti è altro. Noi apparteniamo alla cultura che li ha inventati e il concetto stesso di diritto è applicato all’uomo astratto in quanto tale, senza particolari connotazioni, che sia del Kimbuktu o di Pizzo Calabro. Se viene meno questo ne risulta un indebolimento complessivo. Si sfalda il mondo stesso quale noi incarniamo. Il calabrese, dovrebbe interessarsene perché è dal riconoscimento reciproco che deriva la sua protezione altrimenti è indebolito anche lui. È un meccanismo che deve funzionare sempre, in maniera universale. Anzi, forse proprio ad un calabrese dovrebbe interessare di più in perché in condizioni simili».

Proprio a proposito dello sfaldamento della società può sorgere un pericoloso accostamento. Leggendo le biografie degli attentatori, quelli nati in Europa viene il dubbio che ‘ndrangheta e ISIS prendano dalle stesse periferie sociali, dalla miseria. In un quartiere di Parigi un giovane trova come alternativa l’ISIS, in Calabria la ‘ndrangheta. È così?

«Non esattamente. Non è dalla miseria che trae forza l’ISIS. Non è l’emarginazione il principale connotato, molti di quei profili sono persone laureate però tutte hanno storie di spaccio. E lo spacciatore è perfettamente inserito nella nostra comunità, ci fornisce un servizio, lo cerchiamo noi ed è inserito in una rete solida. Soprattutto non è povero. È il carcere, invece, il momento di passaggio. Non è la miseria economica il punto, ma la miseria culturale. Ad un giovane non offriamo più nulla, nessun modello se non un continuo patteggiamento al ribasso con la realtà. Il modello occidentale non esiste più: cosa propone? Il calciatore di successo, il banchiere e basta. Solo la mancanza di un’identità in persone che magari fanno parte della seconda o terza generazione di immigrati e quindi parzialmente integrati giustifica la scelta estrema di lasciare un “lavoro” sicuro per mettere a repentaglio la vita. Il fatto di sentirsi comunque “prescelti da Dio”, di aver un compito o una missione è già qualcosa.  A noi sfugge sempre una cosa: c’è un grande bisogno di assoluto, di profeti! Succede in alcune epoche storiche. Il contrario del relativismo occidentale. E in questo sta la strategia del califfato».

Ha citato la parola identità. In Italia ultimamente la difesa e la ricerca dell’identità ha portato ad una chiusura, cosa che non avviene invece per loro. Mi sembra di capire che hanno trovato un’identità.

«In Medio Oriente ogni rivoluzione è una restaurazione. I riferimenti sono già tutti lì. Nei loro discorsi non c’è più l’America o il nemico. Non ne hanno bisogno per compattarsi, probabilmente il contrario di quanto avviene in Europa».

L’attacco forse è anche economico. In una sua inchiesta ha documentato un traffico di armi e oggetti antichi tra ISIS, ‘ndrangheta fino ai servizi segreti russi. Pare che queste organizzazioni abbiano a disposizione capitali enormi in grado di mettere in ginocchio o condizionare i nostri Stati invece sempre più poveri. È corretto o esagerato?

«Probabilmente è così anche perché il mondo occidentale si sta parcellizzando in unità isolate, mentre loro sono comunità totalitarie e unite. La vera mondializzazione l’hanno fatta loro, noi ci siamo fermati ai concessionari d’auto. Già l’impero turco, i cannoni li faceva fare agli europei. In un mondo che si muove sul denaro troveranno sempre qualcuno pronto a vendergli la tecnologia necessaria esattamente come noi compriamo grano a due lire dall’estero».

Nel suo ultimo reportage sulle periferie italiane ha raccontato Gioia Tauro, luogo emblema in cui sono affossate speranze e illusioni. Cosa ha trovato in Calabria? Omertà oppure speranza?

«Come racconto ho trovato ragazzi straordinariamente lucidi e determinati. Radicati nei loro territori, ma nel senso di volerli cambiare, non fermi ad un meridionalismo piagnone. Mi sembrano buoni germi, poi non so l’entità di questa giovani, ma qualcosa c’è. Poi la realtà è quella che è ma non è più tanto dissimile da tanti altri luoghi italiani, l’altra tappa è stata Marghera e quello invece è nord-est, senza nemmeno la storia come alibi».

Lei si diletta degli autori della decadenza dell’età imperiale. L’Europa, l’Italia, la Calabria sono la fine di un impero o l’inizio di un altro?

«Non so la Calabria, ma l’Europa sicuramente sì. È la fine di un qualcosa e su quel vuoto qualcosa nascerà. Avrebbe bisogno della penna di Ammiano Marcellino. Pensi alla Francia che ha prodotto Sartre, Camus, oggi non saprei citare uno scrittore o intellettuale che abbia un linguaggio universale».

Per il suo lavoro ha messo più volte a repentaglio la vita. Chi vuole scrivere dalle nostre parti lo fa per rabbia a volte, battendo le nocche sulla tastiera, mettendo in conto certi rischi. In un’Italia dove la stampa è messa sempre sotto attacco e dove basta una fake a demolire lavori di mesi ne vale ancora la pena? Come bisogna farlo?

«Certo, ne vale la pena. In questo momento storico mi vengono in mente i personaggi di Conrad che hanno passati ambigui, ma che svolgono con devozione i loro compiti. Quasi con una concezione religiosa. Fedeli nel raccontare tutte le realtà. Non la verità, attenzione, quello è un concetto pericoloso, ma la realtà. Come i vecchi monaci amanuensi che copiavano le scritture, a volte senza neanche capirle e poi quando i barbari si allontanavano e le strade erano sicure tiravano fuori il libro e iniziavano a leggere. Senza nemmeno farsi molte illusioni di cambiare il mondo, ma semplicemente vedere quello che siamo, il nostro passato, i nostri diritti e proseguire. Essere testimoni. Testimoniare. Imprimere la memoria. Conservare le prove delle colpe.

Ed è con queste parole più o meno che anche Ammiano Marcellino chiudeva le sue Storie nelle quali raccontava di un altro impero, quello romano, ormai incapace di fronteggiare i barbari. Chissà se stavolta i barbari vengono dall’esterno…».

di Saverio Di Giorno

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